Giordano Meacci / Il cinghiale che uccise Liberty Valance
Il dolore ha una tale fame, brutale, bestiale, perennemente inappagata, da nutrirsi con soddisfazione anche degli avanzi; anche di quelli gettati per sbaglio, e destinati all’inferno concluso della spazzatura. Il dolore è come un cerchio cui manchi un punto per saldarsi in sé stesso, e che ha scoperto che può vivere spezzato e però saltare, per raggiungersi, ogni volta trascinando con sé i punti che si porta dietro. Finché non resta più niente, solo una traccia geometrica senza dimensioni di quella che è stata la nostra vita.
Un libro come Il cinghiale che uccise Liberty Valance (Minimum Fax, 2016) non lo troverete da nessuna parte. Non adesso, non in questa galassia, non nelle librerie, né nella testa di alcuno scrittore. Lo hanno definito un romanzo barocco (a ragione), inusuale (a ragione), e hanno scritto che è difficile capirlo (è vero). Bisogna tenere duro – le prime trenta, cinquanta, settanta (secondo me cinquanta, perché è tra pagina 50-53 che tutto cambia) pagine – per capirne la bellezza. Lì, in quella Corsignano inventata che sta al confine tra l’Umbria e Siena, in quella pozza di alberi e di fango che conosco così bene, la storia di Giordano Meacci è il ritratto epico di una generazione che s’abbraccia alle pietre, un paese dimenticato pieno di storia e di storie, dure ferme palpitanti e vere. Questo romanzo è una favola così credibile che non stupisce neanche che gli animali abbiano un cuore, tanto grande da battere per tutta la durata della lettura – che è eroica, come tutte le imprese, non foss’altro che per quelle 440 pagine di cui è composto il libro. In quella Corsignano inventata dove gli inverni e le primavere si rincorrono, i personaggi di Meacci sono piantati nella terra a spargere il loro canto come le sementi, e a guardarli ci sono i cinghiali, le bestie perseguitate e selvagge, fugaci come i fantasmi. Uno di loro guarda gli umani, così tanto e così da vicino da sentirne i sussulti: impara la loro lingua, intercetta i loro sentimenti; finché non si illude (a ragione) di poterli capire, e provare in prima persona. Il fatto che ci riesca è solo uno dei miracoli che accadono in questo romanzo, che è uno schiaffo per il cuore, che è cibo per veri lettori, che è un cammino faticoso per raggiungere un godimento letterario raffinato, e dirompente, colmo di corsivi e di scrittura vera. Meacci ha scritto un capolavoro che non si vergogna di presentarsi per quello che è: un oggetto fisicamente imponente quanto la scrittura che lo pervade; un malloppo duro come un cazzotto in pancia. Non c’è pietà nella vita dei personaggi che vi sono immersi, ma fin troppa ne ha la lingua di chi li presenta al lettore; e leggendolo non si può non capire che esiste ancora un modo di scrivere che palpita e che contiene, dentro di sé, tutta la tradizione che abbiamo dimenticato, e forse anche qualcosa che ancora non conosciamo. Auguri a questo romanzo per la strada che ha da fare, e lunga vita ai cinghiali, sempre così belli.
Questo libro è per chi crede agli animali parlanti e per chi non ha paura di mettersi in viaggio verso terre e città che sulla carta non esistono ancora.
Gaia Tarini
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Sono nata a Perugia nel 1989. Scrivo per la Colonna dal 2014, e nel 2011 ho fondato il blog di recensioni letterarie Le ciliegie parlano, insieme a Giorgia Fortunato.