Antonio Tabucchi, Luca Cherici / Dietro l’arazzo
Dietro l’arazzo, faccia che rivela ordito e trama, il gioco del rovescio -l’essermi accorto un giorno, per le imprevedibili circostanze della vita, che una certa cosa che era «così» era invece anche in un altro modo- risvegliarsi dall’equivoco: l’aguzza fantasia di Antonio Tabucchi ha, nelle sue opere e nel tempo, accumulato diverse espressioni e metafore per significare l’irrefrenabile ricerca di un perché ultimo eternamente sfuggevole.
Tabucchi è un uomo perseguitato dal dubbio, come lui stesso si descrive, tormentato da un desiderio platonico di uscire dal buio della caverna per contemplare le idee o, con parole più appropriate all’autore, la tessitura degli eventi in una metafora di sapore prettamente mitico. E se le parche tessono il destino, Luca Chierici tesse questa conversazione con Antonio Tabucchi (pubblicata da Giulio Perrone Editore) focalizzando le sue opere e la funzione della scrittura in un confronto con un’altra forma di sapere, tutta o quasi novecentesca: la psicoanalisi. Luca Chierici si occupa infatti di un rapporto che si potrebbe dire atavico, perché scritto già nel suo genoma, quello fra psicoanalisi e letteratura ( l’Edipo re ci ricorda qualcosa?).
Se una «funzione inquietante» della letteratura era stata più volte asserita e promulgata dall’autore e non è nuovo in questo dialogo la sua ripetizione -la vita è una contraddizione e la letteratura ha il dovere di esplorare questa contraddizione- il confronto con la psicoanalisi, scienza dura o molle che sia, apre nuovi varchi di conoscenza.
Come la teoria di Salmon Resnik per il quale non esisterebbero le circostanze ma tutto verrebbe determinato dal singolo, parole di un’antropocentrismo positivista su cui Tabucchi concorda solo in parte, fecondo nascere un ragionamento su quel niente che spesso guida gli eventi.
La conversazione, il dialogo fra Luca Chierici e Antonio Tabucchi, si sviluppa a ritmi serrati fra parole di psicoanalisti e parole degli scrittori e poeti per passare poi a una dettagliata disamina della sua opera letteraria. Si apprende la lenta nascita di quel mosaico epistolare che è Si sta facendo sempre più tardi. L’autore rivela di aver scritto di tanto in tanto una piccola tessera cercando di navigare nella geometria delle passioni umane che sono spesso, almeno nella loro comprensione, controtempo. Controtempo per l’impossibilità tragica spesso denunciata dall’autore di capire se non a priori, almeno simultaneamente agli eventi, la propria esistenza. Invece si è confinati nella comprensione a posteriori della realtà, della vita: solo una volta vissuta. Torna inoltre, in questo dialogo, la chiara e vorace passione per il mito, che nella sua inesauribile plurivocità non poteva non colpire Tabucchi; torna la passione politica di cui Sostiene Pereira e Tristano muore sono gli ultimi nati, segni di un’avventura letteraria il cui prodromo, sempre sospeso fra micro- e macrostoria, era stato l’opera prima Piazza d’Italia. E infine ritorna Fernando Pessoa, silenziosa musa ispiratrice di Tabucchi. Antonio Tabucchi ha studiato Pessoa tutta la vita, ne è stato filologo e traduttore, fra i maggiori conoscitori europei ed è, forse, l’autore lisbonese a svelarci il quid di questa conversazione, delle parole dell’autore di Vecchiano.
Nel suo Requiem, un’allucinazione Antonio Tabucchi incontra a mezzanotte, sul molo di Alcântara dopo un pellegrinaggio onirico, allucinato, surreale in una Lisbona rovente di fine luglio, proprio il grande poeta: Fernando Pessoa. Ha vagabondato un’intera giornata fra sogno e realtà, fra passato e presente, e si aspetta una risposta, una parola definitiva da quest’ultimo incontro: la risposta ultima, spietatamente, in un silenzio irreversibile non arriva.
Riecheggia la frase di Tabucchi nel dialogo con Luca Chierici, quando, rispondendo alla domanda su quale rapporto esista fra letteratura e vita, dopo aver asserito che la vita ha una morfologia indeterminata, dice: la vita si può solo vivere.
Fa eco una poesia di Fernando Pessoa: non credere e non cercare, tutto è occulto.
Ma allora, alla fine, cosa rimane al poeta, allo scrittore?
Sul molo di Alcântara rimane solo una grande, enigmatica, misteriosa luna.
Consigliato a chi ha sempre voluto intervistare il suo autore, e non l’ha mai fatto.
Matteo Demartis