Charles Baxter / Festa d’amore
«D’improvviso riuscii a capire che cosa avessi perso. Era bella in un modo di cui non m’ero mai accorto prima. Improvvisamente mi mancava la maniera indolente che aveva, la domenica mattina, di leggere a voce alta gli editoriali del giornale e mi mancava come mi augurava la buonanotte, sussurrando nella mia direzione. Mi mancava tutto di lei, incluso come alcune volte potesse essere cattiva.»
Quale metodo migliore, per scrivere un libro, se non quello di lasciare carta bianca ai personaggi che lo popolano? Meglio se si tratta di amici o vicini, residenti della città dove tu stesso abiti, che a poco a poco ti sfilano letteralmente dalle dita la responsabilità dell’invenzione, chiedendoti di porre la tua scrittura a servizio delle loro storie. È ciò che succede al protagonista di Festa d’amore di Charles Baxter (Mattioli 1885, 2014), che insonne, come Beckett, dimentica di essere. Per scrivere un romanzo, gli suggerisce il vicino di casa, dovresti ascoltare quelli che ti stanno intorno. Detto fatto, Festa d’amore – titolo meravigliosamente azzeccato per un romanzo che si definisce, malgrado tutto, felice – è un gioco di specchi in cui si alternano le voci di sei personaggi, che raccontano di sé in prima persona. A loro il compito di parlare nientemeno che di vita, tra amori e separazioni, morti e speranze, perdite e ritrovamenti, fobie, viaggi, presagi, riconciliazioni e fughe.
Se Baxter crede che ci sia una certa felicità (anche) nella fantasia, ecco che allora il suo compito è ritrovarsi semplice spettatore di queste vicende dove l’umanità viene tratteggiata con sapienza e tenerezza, con una capacità d’ascolto – metaforica e non – quasi impareggiabile. Questo romanzo, potente e complesso, gioca costantemente con la forma e la sostanza; nella sua apparente semplicità, non è una lettura d’evasione, se mai il contrario: ci immerge nella più profonda, insospettabile, regione del nostro essere.
Consigliato a chi si è sentito, almeno una volta, innamorato e perciò immortale.
Gaia Tarini
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