Cristiano Cavina / Un’ultima stagione da esordienti
Cristiano Cavina, Un’ultima stagione da esordienti. Marcos y Marcos, 2006.
A chi è innamorato del pallone
e non è mai stato ricambiato,
più Cyranò che Ibrahimovich
Luglio dell’82, in un campo di calcio arso dal sole nel mezzo del penisola Iberica, la nazionale italiana penetra nel campo avversario. Ci sono numerosi passaggi nell’area, ma un assist fulminante di Scirea incontra i piedi di Marco Tardelli. E’ un attimo. Un tuffo, una frustata del piede, un muscolo nella sua massima tensione. La palla fende l’aria fino ad arrivare all’angolino destro della porta. L’esultanza successiva è storia. Marco Tardelli che esulta per il raddoppio è un fotogramma che resterà scolpito negli occhi di chiunque abbia visto quella partita. Nessuna critica, nessuno snobismo intellettuale, nessuna forma di anticonformismo potrà negare la verità di quell’esultanza.
Stagione Esordienti 1985/1986, Casola, paese di tremila anime arroccato al confine della provincia di Ravenna.
Un gruppo di ragazzini vive l’ultimo anno delle medie, sospeso sull’imprevedibile traiettoria di un pallone. In questo grande spartiacque che è la terza media, flebile confine fra innocenza e disillusione, fra l’incorruttibile fiducia del bambino e la cinica saccenteria dell’adulto, si infila questa storia.
Pochi hanno vissuto quegli anni con tutta l’anima, e ancora di meno sono quelli che se li ricordano.
A meno che non siano stati calciatori, veri calciatori.
Calciatori che sapevano mettere il cuore nelle scarpe e correre più veloce del vento, come cantava, sempre in quegli anni, una barba rossiccia.
A meno che non siano stati calciatori dagli occhi da bambino, non se li ricorderanno.
Cristiano Cavina doveva essere uno di quei pochi fortunati.
Basta leggere Un’ultima stagione da esordienti.
Lasciate che questo libro vi rotoli ai piedi, ed entrate, senza far rumore, all’Enea Nannini. Lo stadio di Casola. Troverete un indefinibile agglomerato di carne, tacchetti e pantaloncini corti. Troverete ragazzi senza nome come il Povero Patrizio, confinato su una panchina ad osservare la vita che gli corre davanti, il Ragno della Storta e i suoi guantoni magnetici verso qualsiasi cosa di forma sferica, l’anima del Mister, inguaribile sognatore, e altre figure leggendarie. I nomi non importano, bisogna solo sapere che erano tutti devoti chierichetti del Dio del Calcio. Dio che, come tutti gli Dei, atterra e suscita, affanna e consola solo chi gli presta fede.
Nello specchio opaco che il campo da calcio è dell’esistenza con rimesse, calci d’angolo, rigori sbagliati, abbracci al fischio dell’arbitro, si muovono i cuori sudati e le scarpe pulsanti di una squadra che sa restituire la magia che spetta a questo gioco. Il suo nome è l’A.C. Casola, e, se il Dio del Calcio l’ascolta, non perdona mai i suoi avversari.
La prosa di Cavina ha ritmo, scioltezza, velocità di passaggio. Nessun’altra qualità serve a chi vuole narrare l’epopea di una squadra provinciale, per chi vuole narrare la potenza del pallone. Ma attenti al trucco, dietro la palla è nascosta la verità. Si racconta del calcio, ma soprattutto si racconta quello che il calcio inconsapevolmente riesce a creare, come il migliore demiurgo. Il calcio unisce, unisce fino allo spasmo, crea un’unione che per quei pochi ragazzi spelacchiati era un mistero silenzioso. Per vivere quell’emozione, per tuffarsi dentro a quei legami che sembrano aver acciuffato l’infinito o si è pazzi o bisogna avere tredici anni e un pallone sotto il cuscino.
Di tutte quegli slanci, di tutti quelle corse, di tutto quel coraggio spesso rimangono briciole, vaghe immagini perdute nel mare della memoria.
Tuttavia se aprite la porta al vento dei ricordi, capirete di non aver dimenticato del goal che non avete mai segnato, sempre rimandato, nascosto fra la polvere.
E forse vi ritroverete ad urlare in una strada come Marco Tardelli, dentro una lacrima e sotto il cielo, per il goal della vita.
Per quel sogno che è sempre stato lì, sulla punta di un piede.
Matteo Demartis