George Saunders / Dieci dicembre
In quel momento l’idea era: acchiappa mamma, spingila dentro casa, mettila seduta, acchiappa Harris, mettilo seduto, da’ fuoco alla casa, o almeno fa’ il gesto di dare fuoco alla casa, così ti danno retta, così la piantano di fare i bambini. Mi scapicollai per la discesa, spinsi dentro la mamma, la misi sulle scale, presi Harris per la camicia, gli feci lo sgambetto e lo buttai per terra. Poi avvicinai un cerino alla moquette delle scale e, quando prese fuoco, alzai un dito, della serie: Silenzio, in me scorre il potere di una recente esperienza buia.
A differenza di quel che dice la citazione dal «New York Times» schiaffata in copertina, Dieci dicembre di George Saunders (pubblicato da Minimum fax) non è il libro più bello che leggerete quest’anno. Eppure questo texano classe 1958, vincitore «del più prestigioso premio statunitense per gli autori di short stories», ha avuto, per quanto mi riguarda, la capacità di riuscire lì dove altri molto più grandi e talentuosi di lui avevano precedentemente fallito: farmi apprezzare quello stile tipicamente americano responsabile, di solito, del mio giudizio traballante rispetto una certa idea di scrittura moderna che richiama modelli alla David Foster Wallace.
Con questa serie di racconti – di cui il più bello, massacrante e sublime è certamente «Fuga dall’Aracnotesta» – Saunders non offre solo uno spaccato di quell’America così lontana da noi ma parla soprattutto dello spaccato, dello spacco come leitmotiv che collega queste storie, il cui fulcro è costituito dall’energia centripeta del dolore, del disagio e della rassegnazione dei suoi protagonisti. Dieci dicembre è un libro duro e intelligente che va letto con attenzione, per lasciare che la forza della sua generale disperazione conquisti un lettore umanamente scosso da una scrittura lucida e consapevole che spesso parla di pura follia.
Gaia Tarini