Georges Perec / Un uomo che dorme
Non hai imparato niente, tranne che la solitudine non insegna niente, che l’indifferenza non insegna niente: era un’impostura, una fascinosa e ingannevole illusione. Eri solo, tutto qui, e volevi proteggerti; volevi tagliare per sempre i ponti tra te e il mondo. Ma tu sei così poca cosa, e il mondo un tal parolone: alla fine, il tuo non è stato altro che un errare in una grande città, e costeggiare chilometri di facciate, vetrine, parchi e lungofiume.
A venticinque anni, il non-eroe di Un uomo che dorme decide che ne ha abbastanza della vita e smette all’improvviso di esistere. Comincia non presentandosi ad un esame ma progressivamente abbandona il contatto col reale, diventando l’ombra di se stesso e lasciandosi andare ad un viaggio trasparente dove ogni cosa, compresa la sua persona, ha perso il proprio senso.
Durante questo vagabondaggio da fantasma è la scrittura asciutta di Georges Perec ad accompagnarlo; una prosa scientifica e talvolta al limite dell’analitico che cerca paradossalmente di creare un ordine laddove ha iniziato a regnare un gigantesco caos. Un caos calmo, dal quale – forse – non può esserci risveglio: quello di un personaggio che vede e vuol vedere il (proprio) mondo sotto la lente d’ingrandimento dell’assenza, dimentico di tutto, anche della possibilità di tornare a vivere.
Perec, del tutto consapevole della fragilità della propria creatura, non abbandona mai il suo protagonista. Il loro viaggio insieme, seppure l’uno appaia naturalmente inconsapevole della presenza dell’altro, cammina sui binari della perdita, della scomposizione e dell’alienazione, ma mette in luce di tanto in tanto anche una forza centrifuga che spinge – forse senza cognizione – verso un’urgente ricomposizione di quello che l’uomo moderno ha perso: il senso della vita, della realtà.
Da leggere.
Gaia Tarini