Julio Cortázar / Un certo Lucas
«Al centro dell’immagine compariranno i gerani, ma ci sono anche i glicini, l’estate, il mate alle cinque e mezzo, la macchina da cucire, le pantofole e le lente conversazioni su malattie e dispiaceri familiari, di colpo un pollo che lascia la sua firma tra due sedie o il gatto dietro un colombo che scafato lo umilia. Tutto questo odora di panni stesi, di amido azzurrino e candeggina, odora di pensione, di pasticcini o di fritto, quasi sempre di radio vicina con i tanghi e le pubblicità del Geniol, dell’olio Cocinero che è il più buono e il più leggero, e di ragazzini che tirano calci alla palla di stracci nel campo giù in fondo.»
Gioco è la parola d’ordine per Julio Cortázar, maestro di ironia, osservatore di decadenza, amante della cosiddetta scrittura sperimentale, la stessa che ha attraversato e attraversa – ormai palesemente – quasi tutta la letteratura sudamericana, e che appassiona molti lettori proprio in virtù della sua capacità di confondere, destrutturare, invitare il lettore a cercare un senso (se c’è), dietro l’apparente ordine delle parole. Personalmente non adoro questo tipo di prosa, così come non condivido la convinzione secondo cui, per rendere bello un libro – di racconti, di frammenti, di poesie, che è poi ciò che definisce Un certo Lucas, Edizioni SUR (2014): tutto questo e niente di tutto questo -, si debba necessariamente ricorrere allo sperimentalismo più spinto. Salvo solo pochi capitoli di questa raccolta di cui ho letto così tanto e così bene; la apprezzo solo nelle fugacissime stilettate in cui intravedo realmente il talento di Cortázar nel considerare ed osservare le persone e i loro rapporti spesso grotteschi o strampalati. Ma non ne idealizzo la vena di apparente rottura, di originalità che tutti invece gli riconoscono, consacrandolo come maestro di stile.
Consigliato a chiunque abbia voglia di dimostrarmi il contrario di ciò che penso.
Gaia Tarini
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