Manuele Fior / Le variazioni d’Orsay
«L’ho chiamato Variazioni di Orsay perché è un esercizio di stile, come quello di Queneau, una serie di variazioni sul tema. Avevo voglia di approfittare per sperimentare dal punto di vista narrativo, senza fare quello che faccio di solito quando ho a che fare con personaggio principale, antagonista, risoluzione del conflitto e tutti gli altri elementi classici di una trama strutturata. Credo sia l’esercizio di improvvisazione più estremo che ho fatto fino ad ora».
Ha solo tre mesi il nuovo fumetto di Manuele Fior, ma se ne è parlato parecchio, se non altro per l’importanza che ha. Seconda di una serie di tre, infatti, quest’opera lievemente insolita segna un momento importante nella maturità artistica dell’illustratore cesenate classe 1975, che insieme a Catherine Meurisse e Craig Thompson ha stretto un felice sodalizio con la casa editrice Futuropolis. Il compito falsamente semplice è partito da un sogno popolare: scorrazzare per le gallerie del Museo d’Orsay per illustrarne contraddizioni e grandezza. Esercizio dedicato più ai disegnatori che ai lettori, Le variazioni d’Orsay (uscito in Italia grazie a Coconino Press) è soprattutto un’occasione per riflettere su visione e osservazione, dedicato a chi filtra e deve filtrare attraverso lo sguardo realtà artistiche di oggi e di ieri. Questo breve salto lungo sessantotto pagine è un tenero invito alla contemplazione e alla riflessione sull’arte di ieri e di oggi, ma soprattutto un incoraggiamento a non smettere di farne.
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[tab: L’esercizio della distanza]
Tre livelli narrativi si intrecciano dentro le Variazioni: due riguardano il passato, uno il presente. In qualche modo queste dimensioni vengono a contatto nonostante i suoi abitanti gravitino in orbite diverse: c’è chi contempla il quadro da lontano (oggi) e chi (ieri) ne è il fautore; ma c’è anche chi (ancora ieri) ne è direttamente il protagonista, al momento – spesso inconsapevole – della genesi. Nessuna scala di importanza, però, perché le storie, come spesso succede tanto nel fumetto quanto nella vita, si intersecano sempre: l’inserviente del museo, colei che è tenuta a far rispettare agli avventori la distanza dal quadro, è tanto fuori quanto completamente dentro l’opera; guardiana anche oltre la sua volontà, la sua è una figura bellissima che attraversa con stupenda leggerezza l’opera di Fior, che la rende degna di incontrare addirittura animali parlanti. Al di fuori del discorso più di cronaca che è alla base delle Variazioni, dunque, c’è una riflessione più sottile e meno dichiarata che accompagna lo studio, la parte analitica del progetto. Quello di Fior non è quindi solo un diario di appunti, una scelta narrativa basata sullo studio degli artisti e delle loro opere; ma anche lo spunto per riflettere davvero sulla volatilità della materia artistica, sulla sua bellezza e universalità, e sulla legittimità, perché no, anche di disprezzarla o non capirla.
Fior compie un’operazione preziosa che illustra il panorama culturale di un secolo oggi tristemente celato al pubblico più di quanto non dovrebbe: come accennato, prima di chiamare in causa un discorso sulla partecipazione e la ricezione dell’arte, Le variazioni d’Orsay è lo spunto per studiare la fotografia di un’epoca, quella durante la quale essere incompresi era un mestiere, ed essere intransigenti un dovere. Cézanne, Degas, Renoir, Ingres e altri “vecchi” maestri sono al centro della scena. Fior li immortala con sguardo neutrale, anzi, spesso si diverte a riproporli col loro brutto carattere o col loro tormento. Misogini o disperati in cerca di un ideale, razzisti o delicati riflessivi, la corrente che li trasporta è già nota e non ha bisogno di troppa narrazione: la mano dell’autore dona loro un guinzaglio lungo, privilegia i dettagli sacrificando (giustamente) la fascinazione del già detto. Con la scansione cinematografica deliziosa cui Fior ci ha abituati, gli artisti attraversano le pagine con tenerezza e passione, collera e frustrazione; si spendono in sacrifici e chiacchiere, ma sono anche gli stessi pronti a fare a pugni o ad accarezzare una tela per avvertire ancora, nonostante la cecità, il miracolo della rappresentazione.
[tab: Tirare fuori la ballerina dalla scatola]
«Questo palazzo è consacrato alla memoria della tua opera. E a quella di tutti gli altri grandi illusi celebrati, ridicolizzati o completamente trascurati… ora imbalsamati e appesi nelle sale a loro dedicate.» Parole profetiche si perdono nel vento, malinconiche come l’atmosfera che spezza, di tanto in tanto, quella urgente e violenta che attraversa Le variazioni. Perché l’arte sopravviva è necessario scendere nelle cantine, nei ripostigli segreti, e – per usare un’espressione felicissima che interviene in una delle tavole di Fior – “tirar fuori la ballerina dalla scatola”. Farlo, come faceva Degas per intrappolare i corpi perfetti delle danzatrici tra movimento ed immobilità, significa accettare che l’arte è una materia (anche) plastica, volubile, che necessita di continue sollecitazioni per mantenersi viva. Secondo tale concezione, allora, in un mondo in cui «la natura è insignificante», estrarre la ballerina dalla scatola diventa un’operazione di rispetto del mito ma che allo stesso tempo ha in sé la volontà di dissacrarlo: un oggetto, qualsiasi esso sia, non può essere rappresentato senza essere prima toccato, percepito. Da qui lo studio dei pittori e delle loro opere di Fior, che ha capito l’impossibilità di fissare l’interezza del loro universo, e che al contempo ha saputo scegliere cosa far intervenire nella pagina e cosa no. Gli impressionisti e i fautori delle avanguardie, ubriachi pazzi geniali e romantici, si prendono a sberle e si contendono il podio della bellezza in queste pagine, ma ciò che chiedono è soprattutto che la loro lezione non venga dimenticata. Le variazioni, come suggerisce il titolo azzeccatissimo, cambiano continuamente colore, lasciandosi andare alla mutevolezza: l’arte sfugge al granito, l’arte ha bisogno di rimanere libera, sempre.
[tab: I pastelli di Degas]
«Ho utilizzato la gouache, un particolare tipo di tempera che mi è servita per tutta la serie di illustrazioni che ho fatto per Repubblica. Essendo un libro sulla pittura ho pensato che potesse essere adatta, perché la gouache è un po’ la sorella povera dell’olio. Ho imparato molte cose facendo questo libro, sono rimasto anche 3-4 giorni su una pagina. Per questa volta mi sono spinto molto nella direzione della pittura, per i prossimi fumetti invece vorrei declinare questo tipo di tecnica in forma più grafica, più leggera, e mantenerlo come stile».
Manuele Fior è il genere di illustratore che non si limita a disegnare la pioggia, ma riesce perfino a farne udire il rumore. Nelle sue Variazioni interviene l’invito alla visione e allo sguardo lungo di cui si è già tanto parlato, le tavole chiamano ad una riflessione silenziosa. Palette incredibilmente ricche – con colori variegati ma che mantengono tutti uno stesso centro tonale – sono al centro dell’opera, in un esercizio che privilegia soprattutto le ombre, quelle che allora solo le candele erano capaci di disegnare. Questo fumetto ha bisogno di essere guardato a distanza, di essere sfogliato e osservato, non solo letto, col rispetto che interviene nello stesso momento in cui si contempla un quadro: la distanza – scelta o imposta che sia – è necessaria per coglierne il senso. Forme morbide e lievemente meno appuntite del solito la fanno da padrone richiamando l’arte classica, che a volte insiste tramite il volto di una ragazza piena di speranze, in procinto di essere scelta come modella da un maestro sconosciuto, che forse avrà il privilegio di fissarne la giovinezza eterna.
«Ho visto i magazzini e ho disegnato quello che ho visto. Quello che si può esporre nel museo è solo la punta dell’iceberg delle collezioni. Molte opere non possono essere esposte, un po’ per questione di spazio e poi perché si rovinano. Alcuni pastelli di Degas per essere mostrati 4-5 mesi devono rimanere 10 anni all’oscurità». Prezioso passaggio quello dell’ispirazione tramite l’esperienza: nelle Variazioni Fior ha dimostrato di aver imparato ancora una volta la lezione dell’arte, che è un’operazione delicata ma intransigente, sempre alla ricerca di sguardi intelligenti per essere tramandata. L’oscurità non deve spaventare troppo: in essa è contenuto il segreto della perfezione, la luce deve intervenire solo quando ci sono occhi consapevoli che sappiano coglierla oppure, come in questo caso, mani sapienti e appassionate pronte a renderne il senso immortale.
Consigliato a chi ama toccare le immagini con le dita e a chi ha bisogno di silenzi densi.
Gaia Tarini
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