Nelle terre di nessuno | Chris Offutt
Qualche anno dopo Papà diede via il fucile e cominciò ad andare in chiesa. Regalò a Warren un cucciolo che cadde dalla veranda e si ruppe una zampa. Papà pianse tutto il giorno. Mi faceva paura. Mamma però disse che se piangeva era segno che la testa aveva ricominciato a funzionargli, e che dovevo essere orgoglioso. La domenica, in chiesa, Papà salì in piedi sulla panca durante la messa. Pensai che il Signore l’avesse toccato e che si sarebbe messo a parlare in un’altra lingua. Il pastore interruppe il suo sermone. Papà si guardò intorno e giurò su Dio che avrebbe guarito la zampa rotta del cucciolo e sarebbe morto nel tentativo. Mamma lo fece rimettere a sedere e gli disse di chiudere la bocca. (…) Dopo la messa Papà portò il cucciolo sul crinale, vicino a un albero di noce, e cercò tutto il giorno di sistemargli la zampa. Ce l’aveva ancora con Dio, quando Mamma ci mandò a letto. Il mattino dopo lo trovò lei. Si era sfilato la cinta e si era impiccato. Per terra, ai suoi piedi, c’era il cucciolo con tutte e quattro le zampe rotte. Era ancora vivo.
Cosa sarebbero i racconti di Chris Offutt senza Chris Offutt? Niente. Perché senza di lui resterebbe soltanto quell’America spoglia, polverosa e spietata che noi non sapremmo capire, né probabilmente immaginare. Quell’America, infestata dai serpenti e ricca di calamità naturali che spezzano con noncuranza il destino degli uomini che la abitano, è il palcoscenico dove operano i personaggi dei racconti che compongono Nelle terre di nessuno (Minimum Fax, 2017). Offutt è uno che fa veramente paura quando scrive, uno capace di dotare gli eventi atmosferici di voce, denti, unghie ed ossa; e al tempo stesso capace di illuminare con una componente quasi magica la banalità di cui racconta. Le terre di cui parla sono scenari senza pietà, dove l’uomo è costretto a scendere a patti con una natura ingrata e la ferocia del orsi, dei puma e dei coyote; dove imperversa l’alcol e il ritmo spento della vita viene scandito dal lavoro e dalla ricerca di un’insperata sopravvivenza. Ma Offutt è uno che le descrive, quelle terre, con un sentimento di tenerezza impensabile, e che in mano a chiunque altro risulterebbe ingovernabile e grottesco; Offutt maneggia questo tessuto geografico e umano con inquietante maestria, rendendo queste storie indimenticabili, senza alcuna esagerazione. Sono sipari brevi, popolati di pallottole e sangue, di boschi e nevicate, di vendette e amori brutali. Padri, figli, fratelli e donne Shawnee in fuga, che sembrano abitare un’unica grande foresta leggendaria, dove l’accettazione della morte diventa lirica e dirompente. Offutt è uno dei maestri della scrittura contemporanea, e il suo libro un amuleto che tutti i giovani aspiranti scrittori dovrebbero portare con sé. A lui spetta un posto di diritto a fianco di voci autentiche e magistrali, come quelle di Carver, McCarthy, Kent Haruf e Jack London. Un libro meraviglioso che fa quello che fanno i grandi classici: non smetterà mai di tormentarvi.
Questo libro è per chi porta sul polso un tatuaggio che si è fatto da sé durante l’ora di matematica, con ago e inchiostro. Per chi si orienta nel bosco a luce spenta, cercando il passaggio dei fantasmi. E per chi sa accendere un fuoco, e non ha paura di bruciarsi le dita — anzi.
Voto: •••••