Paolo Nori / Manuale pratico di giornalismo disinformato
(…) e c’era un fiorista che si chiamava Non solo fiori che se ci passavo davanti, vedevo che c’eran le primule, “E le secundule?”, pensavo, “Quando arrivano?”.
Quando cadono anche gli ultimi baluardi, a chi ci si deve rivolgere in tempo di tormente editoriali e strani sensazionalismi di carta? Ho amato Paolo Nori anche quando il sopracciglio dei miei amici si inarcava per lo scetticismo, ma stavolta ha trionfato lei, la bastarda banalità. Il passaggio di Paolo a Marcos Y Marcos mi sembra (per entrambi) una di quelle cose che sarebbe bello succedessero sempre; ma al contempo è nostro malgrado ora di smetterla di tentare di attingere ad un pozzo che non ha più acqua. Ferita e disorientata, chiudo l’ultima pagina di Manuale pratico di giornalismo disinformato, l’ultima uscita di Nori nella preziosa scuderia di Marco e Claudia. A tratti si risolleva, quando tiene le fila di quelle sensazionali intuizioni che da anni rendono i suoi scritti geniali e commoventi, gli stessi che illuminerebbero anche scontrini e liste della spesa; ma non c’è più costrutto in questa storia, la deriva è imminente, la trama si sfalda come le patate troppo farinose. Non è un ragionamento convincente o una coraggiosa presa di posizione – come La meravigliosa utilità del filo a piombo – sulla triste situazione del giornalismo oggi; non è un diario di episodi, trovate o mini fotografie sensazionali – come La piccola Battaglia portatile; non ha la modernità di Pancetta, né la malinconia di Bassotuba non c’è, il lirismo disperato di A Bologna le bici erano come i cani, né la drammaticità di Grandi ustionati, o la commozione di La banda del formaggio. Insfiorato anche il romanticismo di Si chiama Francesca, questo romanzo – e potrei continuare. E nel tentativo di cercare di capire cosa non è, questo Manuale pratico di giornalismo disinformato ci allontana dal senso, rimane confuso e dispersivo, dolorosamente inefficace. Perde la trama che lascia intravvedere in partenza, conclude riportandola dentro quando ormai il lettore se ne è dimenticato, per altro con un (forse voluto?) effetto sorpresa che non sorprende. E in mezzo c’è, come al solito, l’epopea del quotidiano, ma senza il nerbo che tiene in piedi tutti, tutti i romanzi di Paolo Nori, quell’elemento selvaggiamente necessario, interessante e impareggiabile che lo tiene su da solo, senza bisogno di spiegazioni. Ho paura che questo sia un exploit indifendibile del quale perfino io, che non c’entro niente, mi vergogno un po’. E non sapendo cosa pensare mi affido a quelle briciole che di tanto in tanto mi hanno ricordato perché, da anni, ami così tanto Paolo e la sua visione del mondo.
C’era stata una persona che mi aveva scritto una mail che diceva così: “A collaborare con ‘La Marmaglia’ si va all’inferno”.
E io gli avevo risposto gli avevo scritto che qualche settimana prima, nella luce del mio tinello, alle cinque del pomeriggio, avevo appena finito di stirare, mi era venuto quel pensiero qua: “Figuriamoci se c’è, l’inferno.”
E lui mi aveva risposto mi aveva scritto: “Forse l’inferno non c’è, ma non è un buon motivo per cercare di meritarselo collaborando con ‘La Marmaglia'”.
E io gli avevo risposto gli avevo scritto: “Allora speriamo che non ci sia, perché se c’è ci vado di sicuro.”
E lui mi aveva risposto mi aveva scritto: “Non preoccuparti che ci saranno anche i tuoi compagni di redazione, vi terrete compagnia.”
E io gli avevo risposto gli avevo scritto: “Pensa a noi, qualche volta, dal paradiso”.
E lui mi aveva risposto mi aveva scritto: “Touché”.
Gaia Tarini
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