Rachel Bespaloff / Dell’Iliade
C’è chi, vinto dalla fatalità,
continua a sfidarla e la sconfigge.
Fuori dalle porte scee Ettore scorge Achille agitare la spada. Il guerriero più forte dei Troiani, il figlio più amato di Priamo, l’uomo simbolo di una città, trema, dimentica il suo coraggio e fugge. Fugge per ben tre volte attorno alla sacra Ilio.
Nella piana del Getsemani il maestro ,il profeta, il figlio di Dio è colto dal dubbio, non sa se riuscirà ad affrontare il suo destino. Non sa se riuscirà a portare la croce.
L’uomo, l’eroe, il figlio di Dio tremano davanti all’ignoto più scuro. Non abdicano alla loro umanità, ma la abbracciano nella sua più profonda contraddizione.
I contesti- culturali, storici, religiosi, geografici- talmente differenti che hanno dato vita a questi due passi fanno sì che la comparazione o l’istituzione di un qualche collegamento siano davvero ardui, tuttavia una donna non l’avrebbe pensata così.
Il suo nome è Rachel Bespaloff, intellettuale ucraina cresciuta in Francia , che compone un piccolo commento sull’Iliade, scaturito dalla lettura alla sua bambina delle gesta di Ettore, mentre Hitler varcava le Champs Elysées.
Sarà proprio dalla figura di Ettore che la Bespaloff (in Dell’Iliade, Città aperta 2004) sguscerà, a suo giudizio, il tema cruciale dell’Iliade: la bellezza della forza -grande, potente, tremenda- e il suo necessario male. L’antinomia più inscindibile e ancestrale dell’uomo: la forza vitale che porta con sé, come necessario opposto, la morte, la distruzione e la perdita. La bellezza di Elena che, dalla sua immensa attrattiva ricava una condanna all’infelicità piuttosto che un sereno avvenire. La forza di Achille sovrumana, ma peritura. Il coraggio di Ettore trafitto da una lancia che gli trapasserà il collo da parte a parte.
In Omero non ci sono fazioni giuste o sbagliate, il male e il bene si intrecciano fino a confondersi nella bulimia della forza che tutto divora. Lo stesso Ettore, eretto a personaggio chiave dell’Iliade, non può che perdere la sua umanità nello sconsiderato esercizio della forza. Anche la sua bellezza non sfugge al lordume della guerra.
C’è, tuttavia, una dilaniante, infinita, tutta mortale, bellezza, che sfocia nella più intoccabile tenerezza, in questi eroi umani, troppo umani -dalle lacrime fino alla rabbia più bestiale- che continuano a combattere nel misero fango della vita. La resistenza, secondo la Bespaloff, è ciò che canta Omero, il nucleo pulsante del poema. Nello scontro cosmico fra vita e morte, l’uomo non è solo una pedina, ma può avere l’ultima parola. L’importante è che sia quella giusta.
Quando la Bespaloff lascia il terreno della sua personale e travolgente esegesi dell’Iliade per avventurarsi nel molto più impervio settore del saggio, enunciando teorie di cui si stenta a trovare una completa e coerente argomentazione -troppi sono gli elementi dati per scontati e troppo poco scientifiche paiono le premesse ai vari enunciati- il suo reale spirito si perde, senza, forse, smarrirsi del tutto. Nell’ultimo collegamento (seppure relegato all’ultimo capitolo, le premesse sono disseminate in tutto il libro) fra fonte biblica e fonte classica, la Bespaloff denuncia un nucleo di pensiero comune ad entrambe. Ci sarebbe, sostiene l’intellettuale ebraica, un modo di cantare il vero, comune sia alla Bibbia sia all’Odissea.
Nel buio della notte dell’ultimo libro dell’Iliade, in una tenda dove si incontrano un padre senza figli e un figlio senza padre, una vittima e un omicida , un ragazzo e un vecchio avviene l’incommensurabile.
Achille prende la mano di Priamo e in quel silenzio rotto da un singhiozzo, si incrociano tutte le strade, finiscono tutte le storie. O almeno la storia dell’Occidente, là dove era iniziata.
Matteo Demartis