Salvatore Mannuzzu / Un dodge a fari spenti
«Questo romanzo è il primo che ho scritto, quasi la prima cosa che ho scritto. Cosa ne posso dire, oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto».
Non deve essere facile per uno scrittore confrontarsi con la sua prima opera: è un tassello che soffre dell’insicurezza della primogenitura. La madre è troppo insicura, troppe sono le imprevedibilità dell’esperienza. L’inizio ha la scabrosità del buio, non si sa bene cosa si sta afferrando. La tempra dello scrittore è ancora troppo molle ai fendenti della critica, ancora troppo in ricerca di sé. Forse è per questo che si ha un rapporto così ambivalente, così poco conciliato con la propria opera prima: ci ricorda, in quel grumo embrionale di ispirazione che rappresenta, che niente a questo mondo è definitivo, l’eterna insicurezza delle nostre azioni che non sono mai definite al meglio nelle infinite possibilità dell’esistenza.
La citazione appartiene a Italo Calvino, ma forse acquisisce una risonanza ancora più tragica -come poteva essere diversamente?- nella scrittura di Salvatore Mannuzzu, di uno scrittore che afferma: «Ogni cosa che faccio prima o poi ( spesso prima: subito o quasi ) mi dispiace».
La conciliazione con Un Dodge a fari spenti, sua opera prima, durerà più di quarant’anni e come ogni inizio lascerà note inconfondibili nella sua memoria. Mannuzzu scrive il romanzo durante le interminabili prove del concorso di magistratura che, una volta passato, segnerà l’abbandono almeno parziale della scrittura fino al 1987, terminate le sue fortunate parabole in tribunale e in parlamento. Un Dodge a fari spenti è un titolo -per lo meno- improbabile e non appartiene neanche all’autore: consiglio e imposizione non lungimirante di Carlo Ripa di Meana. Il titolo, nelle previsioni dell’autore, doveva essere Mariolino: più modesto e, alla fine dei conti, più significativo.
In una Sardegna dove si stende l’ombra degli ultimi anni del fascismo e poi la lunga ombra della guerra -ombra perché in Sardegna la guerra, tranne eccezioni, non si combatté mai- si svolge la nostra storia, o meglio la storia di Mariolino, di un figlio di un caduto in Abissinia o, come acutamente segnala Antonio Pigliaru in un saggio dedicato a questo libro, richiamando Gramsci, di un morto di fame piccolo-borghese.
Mariolino è infatti il ritratto, messo a punto con realismo non dogmatico, non verghiano, del piccolo-borghese diffuso nella Sardegna rurale senza progetti e senza sogni, senza reale volontà e perciò senza futuro: avvezzo all’arte dell’arrangiarsi per sopravvivere e non per vivere. Questo personaggio cresce nelle pagine, in una crescita che più che svelare la sua identità sembra frantumarla: da piccolo balilla a postino, dai baci fugaci al letto di una prostituta, dal gioco per strada al biliardo denso di fumo del dopolavoro. La sua vita procede in una linea che si sviluppa per inerzia: Mariolino aveva accettato la vita, senza mai volerla del tutto.
Nella scrittura del primo Mannuzzu si stenta a ritrovare quelle note così amaramente complesse dello scrittore sardo di Procedura, i periodi ipotattici arzigogolati e infiniti, le digressioni interiori che cullano i personaggi nell’andare e venire della storia, i brevi e taglienti flussi di coscienza che rivelano l’anima. Tutto è più contratto, essenziale, asciutto: il discorso è per lo più paratattico, la focalizzazione sull’interiorità ridotta a zero. Le descrizioni appartengono a un narratore-spettatore che mai interviene, le battute dei personaggi sono gli unici mezzi che l’autore si concede per guardare la realtà. Se non è ravvisabile una adesione piena né al realismo-la storia non si fa da sé; il narratore, pur nella sua neutralità, è interno al racconto- né all’école du regard -l’uomo è ancora il centro del racconto- c’è tuttavia un’attenzione agli oggetti, un ritratto così scarno degli stati d’animo che verrebbe da chiedersi dove era nascoto, in un ragazzo poco più che venticinquenne, lo scrittore delle furibonde confessioni, dalle amare sinfonie condotte da quei direttori di orchestra che nei suoi libri si chiameranno, con una terminologia ripresa da Friedman, io come testimone o io come protagonista.
Forse in quell’infinito lavoro che è lo scrivere sentenze, Mannuzzu ha elaborato la certezza che i dati di fatto, gli atti processuali -ciò che si può mettere agli atti- non conta. Contano le inferenze umane, i dettagli più insignificanti, foto nascoste o diari perduti , pensieri mai confessati in un’eterna indagine del sottosuolo.
Tuttavia c’è un punto, un filo sottile ma indistruttibile che unisce questa prima prova alle seguenti, un dato che sembra avvolgere Mariolino, sottrarlo ad ogni indagine sociologica, ad ogni tentativo di erigerlo simbolo della coscienza mancata gramsciana, per restituirlo ad un’altra storia.
La storia dell’impotenza dell’uomo, della sua tragica finitudine, della sua impossibilità reale a determinare gli eventi. I personaggi di Mannuzzu, postini o trafficanti della borsa nera, medici o magistrati non sono solo antieroi novecenteschi, ma qualcosa di più. Goffi ed impacciati, in un’impossibilità a decidere che tanto ricorda il Valerio Garau di Procedura, solcano l’Isola travolti da venti sempre più forti di loro e incapaci a determinare la loro storia vagano come smarriti. Eterni naufraghi di un mare in tempesta stringono forte la mano senza riuscire a mantenere la presa, prima della caduta definitiva.
Addio.
Consigliato a chi non si perdona le prime prove.
Matteo Demartis