Sergio Atzeni / Il quinto passo è l’addio
[Anche se questa rubrica dovrebbe, tempo & il resto permettendo, ospitare principalmente interviste, stavolta affianca Gaia Tarini e le sue recensioni. Il motivo? E quante cose! Via].
A Claudia,
ragazza incontrata sul treno,
che ha fatto molto più di cinque passi
Il quinto passo è l’addio è un attraente novenario di parole inanellate insieme, affascinanti come il bagliore delle lucciole in una silenziosa notte d’estate, musicali e con un significato struggente: attirano l’occhio e affascinano l’orecchio.
Eppure, il suono di questo novenario è meno armonioso delle lucciole estive. Troppa è la nostalgia che si porta dentro. Troppo il dolore soffuso, lo stesso che, ogni tanto, si trasporta addosso la nostra, alquanto stanca, esistenza: quello della coscienza della fine.
E il tema del suono è tutt’altro che residuale, in Atzeni: a partire dalla ritmicità del suo ultimo libro, sempre, nel leggere questo scrittore, ci si confronta più con i suoni che con le lettere.
Se il passaggio dal grafema al fonema è breve, nella scrittura di Sergio Atzeni è quasi invisibile.
Lui, rapsodo cangiante di un’isola del Mediterraneo, scriverà (in «Altro non so», da La grotta della vipera):
altro non so
che inanellare parole
insieme
una poi l’altra
in fila
canticchiando
in blues.
Questa è forse la più importante dichiarazione di poetica per uno scrittore che è -si percepisce in ogni pagina- prima di tutto un narratore orale e, come ogni aedo, sembra volere portare a termine una missione, quasi ispirato, accecato da qualche strana divinità. Sergio Atzeni vuole cantare le gesta dei suoi eroi, non più gli eroi forti e belli del mito o intrepidi e leali della canzone medievale, ma i suoi eredi diseredati, i maniaci sessuali, falsi poeti e banditi o semplici drogati di Is Mirrionis.
Canta la disperazione, la stranezza, la magia del suo popolo che altro non è che quello sardo per uno scrittore che si professava, nell’ordine, sardo, italiano ed europeo.
Atzeni va così a realizzare un imperativo categorico che sentiva dentro di sé: «Io credo che la Sardegna vada raccontata tutta». Del resto, in una conferenza a lui dedicata, specificava: «Credo che le vite di tutti gli uomini meritino in qualche modo di essere ricordate, trasmesse».
Il quinto passo è l’addio è la storia di Ruggero Gunale, «ignobile e folle, un muflone» discendente da una stirpe di logudoresi infami. Ruggero Gunale non è solo l’antieroe novecentesco, in acrobatica sospensione fra Fantozzi e Marcovaldo di calviniana memoria, ma è, per prima cosa, una figura che ricerca la sua identità nella strana danza di ombre e scheletri che compone questo libro, teatrino spesso degli incubi, delle paure, delle visioni del protagonista.
La storia raccontata diventa, con un brillante flash-back, un racconto circolare che racchiude tutta la vita del piccolo impiegato cagliaritano, spesso narrando l’ esclusione (il lido del Poetto, spiaggia dei borghesi cagliaritani da cui era tassativamente scacciato) e quella incredibile, irriverente pazzia che lo portava a vivere in un modo tutto suo: derubando spacciatori, distruggendo le macchine degli amici in folli corse, amando fino all’ultimo spasmo.
Gunale lavora alla Sardaplastik, azienda che assieme al vicino baretto costituisce un vero e proprio zoo: si va dal «Fetido», improbabile piccolo direttore di reparto, che con le sue scarpe impesta un intero edificio, a Tonino Camboni, noto alla cronaca per aver fermato l’autobus 5 alle 5 in via Manno, defecandogli davanti, fino a Monica, le cui chiappe sode fanno vibrare le sconsolate mutande degli impiegati dell’azienda e di cui Ruggero si innamorerà alla follia.
Inizieranno allora per Gunale i passi segreti di una danza antica: il fuoco, la colpa, il delirio, l’agonia e, infine, l’addio. In questi cinque tempi che scandiscono la complicata storia di Ruggero e Monica si ascoltano gli echi di vecchie tradizioni popolari e l’ancestrale certezza del comporsi ciclico dell’esperienza umana. Al quinto passo la storia fra i due diventa ancora più incomprensibile, in una spirale infernale, da cui Ruggero potrà salvarsi solo realizzando l’addio, ossia abbandonando l’isola. E allora, stordito dai fumi della sua dolce canapa, osserverà quel che abbandona dal ponte della nave in cui si è imbarcato, incappando in visioni fra il mistico e allucinatorio.
Il nero è il colore che predomina di più in queste pagine di Sergio Atzeni -la cui scrittura, secondo una brillante tesi di laurea, è una scrittura cromatica- e non è un nero qualsiasi: è il nero del vuoto, il nero della non esistenza, il nero dell’assenza di risposte. Un nero innestato di un altro ingrediente tipico della narrativa di Atzeni, spesso declinato in quella favella cagliaritana, in quello slang di periferia che genera immediatamente nel lettore avvertito (e abituato) l’impressione di trovarsi di fronte a un autentico contafàulas: parola campidanese che indica tanto il cantastorie quanto il contafrottole. E pare quasi di vederlo appollaiato sulle scale della cattedrale di Bonaria, con le palpebre appena socchiuse, pronto a raccontare il suo ultimo sogno o il suo ultimo incubo.
Cosa abbia trovato Gunale nei propri incubi è poco chiaro, o forse è una tangibile, solida certezza. Per questo uomo che rappresenta lo sconfitto da una società che non l’ha voluto e che lui ha, a sua volta, rifiutato non sembra configurarsi che un vago e anonimo destino, quando anche l’ultima certezza dell’identità -la sua famiglia, la sua isola, le sue radici- sparisce davanti al mare. Forse, Ruggero Gunale, non è altro che il personaggio di un incubo di questo fascinoso affabulatore cagliaritano. L’incubo oscuro di coloro che, trovatisi all’incrocio dei venti, naufragano nella terra di nessuno.
Matteo Demartis