Gabriele Di Fronzo / Il grande animale
E intanto le mie mani competenti, spesso impiastrate, adesso con il cotone idrofilo e adesso con la plastilina, ora delicate in un intarsio di muscoli ora svagate in un trucco di ossa, che smucinano in un cranio, perlustrano, imbastiscono con del polistirolo espanso una sagoma artificiale e spigolano tra quel che rimane, le mie mani che hanno bisogno di poco altro, le mie mani che lusingano, ora con ritegno restano ferme.
Tassidermista affermato e solitario, Francesco Colloneve si trasferisce a casa del padre per assisterlo durante gli ultimi giorni di vita: una malattia silenziosa che compromette la memoria se lo porta via con sé nel giro di poche settimane, durante le quali Francesco è impegnato ad imbalsamare un grosso serpente. Mentre le sue mani vagano consapevoli lungo le spoglie del rettile, anche la memoria di Francesco si spacca in due per lasciar fluire i ricordi che salgono violentemente in superficie: il grande animale è lo strato di vuoto che si stende tra gli unici due personaggi di questo libro, che si muovono su un fondale di figure di cartapesta, una sfilza di cadaveri inconsapevoli o dichiarati, che non se la sentono di andare in pensione. Il ficcare le mani all’interno di creature che adesso non sono più per star dietro ai fanatismi disparati di quelli che equivocano la morbosità con l’affetto, è il pretesto ideale perché Francesco ripercorra l’infanzia dura del bambino picchiato e orfano di madre che è stato, cresciuto da un padre incapace di mobilitare le parole per salvare una purezza che appare ormai definitivamente cancellata.
Il grande animale è un romanzo che mi ha lasciata non poco perplessa e combattuta. Si apre sgrammaticato («Ho fatto esperienza che qualunque cosa non si voglia perdere va innanzitutto vuotata») e si snoda con terribile artificiosità. Di continuo ho supplicato mentalmente che il suo autore lasciasse intravedere quell’anima cancellata che sale in superficie solo per un brevissimo (e bellissimo) momento, col guizzo di un pesce raro; perché il resto è solo esercizio stilistico colmo di verbi ed espressioni desuete, che aggrediscono inutilmente la trama con l’ossessione per la parola che nasconde un sospetto sinistro: quello che si debba applicare chirurgicamente una scrittura analitica e drammatica per raccontare drammaticamente qualcosa che già di per sé chiama allo strappo. Dov’è l’anima di Gabriele Di Fronzo, dimenticata esattamente come ha dimenticato la sua Francesco Colloneve, mentre si riferisce a sé e al suo passato con la distanza degli occhi di biglia che finiscono sempre per rimpiazzare quelli mobili e veri, degli animali sconfitti che adesso non possono far altro che stare muti? Il grande animale (nottetempo, 2016) è un libro che scortica come acido muriatico e che potenzialmente sorride bene alla tensione, ma si spezza e si frantuma troppo spesso perché un lettore allenato possa lasciarsi convincere fino in fondo.
Consigliato a chi non ha ancora capito come uscire dall’armadio.
Gaia Tarini
Leggetela anche su Le ciliegie parlano