Stephen Collins / La gigantesca barba malvagia
«Ho scritto per anni per un giornale di sinistra e, per quanto i lettori fossero sulla carta tutte persone molto aperte ed evolute, si creava comunque una forma di chiusura, di comunicazione limitata tra persone che la pensano allo stesso modo. Ho osservato in me stesso e negli altri la presenza di questi pregiudizi residui, per questo ho voluto raccontare di un evento improvviso che mette in discussione tutte le apparenti certezze. È molto facile pensare di essere progressisti e moderni e aperti mentalmente, ma nel momento in cui ce ne convinciamo cadiamo subito nella trappola di un pregiudizio».
Stephen Collins, da un’intervista su Fumettologica.it, 19 maggio 2014
The man who wasn’t There. Tra here e there in inglese c’è solo una lettera di differenza. Eppure basta quella semplice «t» per cambiare la concezione e la definizione di uno spazio capovolgendone improvvisamente il significato. La gigantesca barba malvagia di Stephen Collins (Bao Publishing, 2014) si apre con la cartina di due mondi diversissimi, Qui e Lì: il primo rappresenta il mondo ideale e ordinato, il secondo – metafora dello Sconosciuto – inizia col mare, un enorme oceano nero che inghiotte tutto e tutti. Teatri di questa storia, questi due universi narrativi separati dal tratto di un illustratore sapiente, mettono in risalto l’inconciliabilità di fondo che percorre la vicenda, al centro della quale si svolge una sorta di tragicommedia degli opposti, una fotografia nitida del Pregiudizio, un saggio sulla Diversità.
Protagonista di questo fumetto è un impiegato col parrucchino che, a differenza di tutti gli altri abitanti di Qui, si è sempre silenziosamente distinto per un dettaglio: un unico pelo ricurvo posto sul viso, simbolo della radice del cambiamento, che da un giorno all’altro inizia a creargli non pochi problemi, decidendo deliberatamente di trasformarsi in una barba disastrosa e dilagante che rischia di mettere in pericolo per sempre la quiete della città.
Ironica ed insieme feroce metafora sull’ottusità ma anche sulla speranza di cui sono ancora fortunatamente forieri uomini di carta e non, La gigantesca barba malvagia ha permesso al disegnatore inglese di mettere a servizio di una storia commovente e intelligente i suoi rigorosi bianchi e neri, all’interno dei quali il grigio rappresenta un’ancora di salvezza, l’indizio che l’abbattimento delle barriere, perfino quelle più granitiche, è ancora possibile. Forse non a caso, in una recente intervista Collins ha dichiarato di adorare i fratelli Coen, autori di un film cult come L’uomo che non c’era (farà sorridere la coincidenza col titolo originale: The man who wasn’t there), girato completamente in bianco e nero (ancora un’ironica casualità). Che vivano sulla carta o sulla pellicola insomma, gli uomini che attraversano queste realtà sono protagonisti silenziosi e incolori, mezzi eroi per eccellenza che cercano e devono ritrovare le sfumature della felicità.
L’ uomo senza qualità. Per raccontare questa storia di evasione e disordine, Collins sceglie un antieroe perfetto: Dave, impiegato in una ditta dalle produzioni oscure anche ai propri dipendenti. «Smetti di chiedertelo», gli intimano i colleghi quando cerca di scoprire cosa esattamente produca l’azienda in cui è assunto: tutto quello che gli spetta è preparare a fine giornata dei grafici ordinati in cui si illustri l’andamento del lavoro. Quello che però quasi nessuno sa è che, una volta dismessi gli abiti da impiegato, Dave entra in un mondo tutto suo: un universo in cui il computer manda in repeat una canzone malinconica e dentro cui, dietro lo schermo della propria finestra, egli può osservare il mondo e gli altri riproducendoli sulla carta.
La gigantesca barba malvagia dunque poggia molto sulla tematica della (doppia) visione: quella del lettore che da un punto di vista privilegiato gode delle due dimensioni (il qui di Dave, il lì che sta oltre la finestra; il qui del mondo ordinato e il lì oltreoceano) e quella del protagonista che durante la notte dimentica il proprio destino di automa tornando ad essere un «umano troppo umano». Come l’ L.B. Jeffries di La finestra sul cortile, il laconico Dave è la colonna portante di questa storia che contempla una sorta di «metasguardo» nella dicotomia tra dentro e fuori, lì e qui, io e gli altri, giusto e sbagliato, ordine e caos. E, parlando di dicotomia, impossibile non pensare ad una visione lievemente pirandelliana della storia, se – per stessa ammissione dell’autore – questa graphic novel si serve del cosiddetto «umorismo» che gli permette, come permetteva all’autore siciliano, di raccontare qualcosa di tragico attraverso il comico e viceversa.
Diverso è bello. Dave è il martire che porta la croce della diversità: d come different (diverso), in un mondo cieco e a misura «di omino», quello dei giornali dai titoli allarmisti, della tv degli esperti, della strumentalizzazione dei problemi, dei cambiamenti, delle novità. Per spazzare via il germe del quieto vivere – quando la quiete significa chiusura, estraneità – gli eventi devono diventare disordinati e, attraverso una battaglia disperata, cercare di dimostrare che quel disordine è la più alta forma di perfezione. Al lettore è chiesto allora un doppio sforzo: arroccarsi nel mondo protetto di Here e poi capire come arrivare a desiderare quel There così lontano.
Collins sa perfettamente come in una graphic novel che si rispetti anche i significati più profondi debbano servirsi della tenera complicità del disegno, della metafora più ingenua (anche se in questo caso geniale) per risultare credibili. Ecco perché è proprio una gigantesca barba per così dire malvagia che porta lo scompiglio nel regno di Qui: comincia a crescere a dismisura sul viso innocente e fino ad allora completamente glabro di Dave, unico personaggio chiave che può spalancare la porta per mettere in comunicazione due universi contrapposti. La «questione barba» quindi diventa il simbolo dello stravolgimento dell’ordine: ecco che grazie a questo evento ferocemente malinconico – di cui Dave è in fondo la prima vittima – tutte le certezze degli abitanti di Qui devono necessariamente crollare. Sintomo che di fronte ad un processo inarrestabile di crescita (vera o simbolica che sia) il cambiamento è necessario per guardare alla realtà con occhi diversi. Il mondo geometrico e immobile di Qui viene progressivamente destabilizzato alla radice, mentre in superficie l’apparente sacrificio di un antieroe solitario ma coraggioso come Dave appare l’unica via d’uscita per cambiare le sorti di quel mondo e di quell’umanità. Dopo una serie di tentativi per ostacolare la dilagante evidenza che niente può e deve rimanere uguale a se stesso, alla creatura di Collins sarà chiesto di farsi guida di una realtà che ha sempre sognato, inconsciamente, di disordinarsi.
In questa terribile e meravigliosa metafora della vita, Stephen Collins utilizza il suo tratto incolore con sapienza, spezzando il ritmo della narrazione – molto spesso rarefatta e ridotta all’essenziale – che appare costantemente lirica e commovente. La gigantesca barba malvagia, che a tratti ricorda il romantico e agrodolce Blankets di Craig Thompson per tinte e malinconia, è un viaggio toccante in cui, dentro la cornice dell’indifferenza del mondo, si muove un eroe tutt’altro che trasparente. Ingombrante e delicato, il Dave di Collins rappresenta la possibilità di fuga da un mondo di pregiudizi anche quando l’evasione ha costi altissimi; simbolizza il sacrificio della maturazione che strappa l’individuo dal nido del conosciuto. In qualche modo è perfino l’impronta su carta del passaggio dall’età bambina a quella adulta, in cui il mondo diventa terribilmente (e meravigliosamente) diversificato: un privilegio che – e in questa graphic novel appare evidente – è purtroppo più raro di quanto non si creda.
Gaia Tarini