Virginia Mori / Stanze a dondolo
«La penna Bic non credo che sia stata una vera e propria scelta consapevole, me la sono praticamente trovata in mano: ci sono cresciuta e ci disegno perché ormai per me è diventato naturale e rassicurante utilizzarla e con il tempo ho cominciato ad apprezzarne le qualità come ad esempio l’inchiostro e la possibilità di ottenere diversi tipi di sfumature».
Virginia Mori, La luna di traverso
Non propriamente un fumetto nel senso stretto del termine, Stanze a dondolo non ha nemmeno un codice ISBN. È un libro bianco, quadrato, di quelli da tenere su una bella mensola o un tavolino di vetro; un oggetto da sfogliare, più che un testo di riferimento, per sviluppare la nostra capacità di costruire una storia a partire da un dettaglio basico: l’illustrazione. Virginia Mori aveva soltanto trentadue anni quando uscì, in tiratura limitata, grazie a quelli della Blu Gallery di Bologna (dove le copie rimaste aspettano ancora i fortunati curiosi che avranno voglia di approfondirla), dove le sue stampe sono state esposte dal 23 novembre al 16 gennaio del 2013. Stanze a dondolo è la risposta che sta tra un sogno e un incubo, perfettamente frenato prima di diventare esplicito, altamente simbolico e splendidamente semplice.
[tab: Deserto senza colori]
«Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca. Dimmi se sto tremando», chiedeva una meravigliosa Monica Vitti nel Deserto rosso di Antonioni, uscito in Italia nel 1964. Quella fu la prima pellicola a colori del regista ferrarese, mentre i disegni di Virginia Mori sono tutti esclusivamente in bianco e nero. I colori non attraversano mai le sue illustrazioni – eccetto qualche sporadica tinta di rosso -, ma certamente alle sue bambine i capelli fanno molto male: li usano per nascondersi, per litigare, li tagliano per dispetto o per disperazione, li scompigliano per ripararsi dalla pioggia, li sanno trasformare in coperta, culla oppure ombrello se avvertono la minaccia di un pericolo qualsiasi. Chiunque le incontri non potrà dimenticarle: hanno l’aspetto di piccole collegiali, coi loro vestiti neri al ginocchio, i calzini bianchi, le scarpe con la fibbia; e dentro gli occhi (spesso chiari, quasi trasparenti) tengono un segreto difficile da intuire. Stanze a dondolo è prima di tutto un libro di disegni spiccatamente femminili: in esso intervengono i simboli di quella parentesi che sta tra l’infanzia e l’età adulta dominata spesso dall’aggressività e dalla paura, toccata certamente dal sogno. Non ci sono fumetti, né dialoghi, ma tutto è affidato all’immagine: le bambine hanno gambe, prolungamenti, mani, bocche spalancate e molle che escono dal loro corpo, dettagli apparentemente solo accennati, cui è affidato il compito di tradurre il loro urlo.
Stupendamente giocato in quest’ottica di contrasto, Stanze a dondolo è una fotografia che sa passare dal tenue al profondo nello spazio di un attimo. Lo popolano le amiche dispettose, le nuotatrici malinconiche, le ragazze col cappotto cui manca sempre un bottone; la loro forza è nell’attesa, nel sostare dentro la pagina appena prima che succeda qualcosa, come in un film di Kubrick. I tendaggi, gli orologi le avvicinano pericolosamente ai sentieri di Lynch, ma il loro movimento – a volte perfino aereo – è compreso nell’atmosfera di un sogno, brutto o bello che sia. Sono queste bambine le mille facce di chi le disegna, sono specchi che rimandano al prolungamento della penna a sfera che le crea. Virginia Mori le fotografa prima con gli occhi dell’intimo, solo dopo con il tratto effettivo: lascia che sfiorino l’assurdo, che si lascino andare nell’esatto momento in cui tutto il peggio o tutto il gioco è appena successo. In questo senso, Stanze a dondolo è un libro di illustrazioni che (concedetemi l’azzardo) contiene moltissimi suoni: quelli di una coperta tirata, il crepitio di un fuoco, il fruscio degli alberi o dell’erba di un bosco dove una specie di Alice gigante si è distesa come Gulliver, oppure lo schizzo della molla che tira il cuore verso l’esterno – esattamente come fa il disegno per tutti quelli che lo praticano.
[tab: Quattro conigli neri come l’inchiostro]
Sfogliando Stanze a dondolo ho ricordato l’assoluta genialità di Collodi nella scena di Le avventure di Pinocchio in cui, mentre il burattino è costretto a letto con la febbre rifiutando di prendere la medicina, arrivano a terrorizzarlo quattro conigli neri che trasportano la sua tomba. Per l’epoca (era il 1881) l’immagine fu fortissima, così forte che il suo richiamo è arrivato e persiste ancora nei bambini di oggi. Virginia Mori forse è stata impressionata da quella scena esattamente come me, con la differenza che le sue bambine hanno in qualche modo “fagocitato” quei conigli, diventando esse stesse un tramite tra il mondo umano e quello animale. Lo scontro-incontro umano con la bestialità, da Dante a Jean de La Fontaine e oltre, è centrale in una serie infinita di opere. In Stanze a dondolo questa ricchezza torna in qualche modo – in special maniera con i conigli, appunto, e coi cani: certe volte gli animali restano all’esterno e testimoniano ad una colpa, ad un delitto, ad un particolare stato mentale e spirituale delle bambine della Mori; altre volte le pervadono, le posseggono, si lasciano addomesticare incidendo radicalmente sulla loro umanità.
La carica iconica, metaforica e simbolica di queste illustrazioni costringe ad uno sguardo lungo sulla pagina. Di solito gli elementi sono pochi, anche se molto accurati; eppure in qualche strano modo la loro tensione emotiva e misteriosa ammette esclusivamente un’osservazione lenta e insistente. Che cosa succede ai piedi della ragazza in piedi al centro di un branco di cani che sventolano code-bandiera? Sarà mangiata, sarà annusata, porterà sulle scarpette lucide uno schizzo di sangue? Queste domande sono al centro di tutta la bellezza dei disegni di Virginia Mori, il cui potenziale è tutto in quella capacità di sapersi fare insinuante, di giocare soprattutto con quello che dentro lo spazio dell’immagine non c’è. Quindici donne coniglio bendano una bambina e la ricoprono di caramelle: ma la scena diventa immediatamente ambigua quando tra i loro sguardi e quello (oscurato) di colei che è al centro passa una tensione di disagio e delicatezza perduta, che sfocia non di rado nell’erotismo, nel sensuale, sempre senza mai percorrerlo schiettamente, sempre traducendolo tramite la purezza.
[tab: Solo con una penna a sfera]
E infine sensazionale è il tratto della Mori, quando si pensa che tutte le sue illustrazioni sono fatte con una semplice penna nera Bic. Forse è in questo dettaglio che è contenuto tutto lo stupore di chi ha guardato i suoi disegni: nella capacità abbastanza inedita e certamente talentuosa di utilizzare uno strumento poco preciso per indugiare su un disegno invece enormemente particolareggiato. Gli alberi, i capelli, i fili d’erba, gli squisiti tendaggi, le tappezzerie di Virginia dichiarano una costruzione lenta e quasi ossessiva, maniacale dell’immagine, un’osservazione ritmica della realtà che tiene contro anche di ciò che si vedrebbe solo in filigrana. Stanze a dondolo è un mini carnet di cartoline dal sogno (o dal suo contrario), tanto inquietante perché capace di suggerirci che dietro i nostri pensieri più terribili c’è sempre un pizzico di verità.
Consigliato a tutte le bambine che hanno perduto la propria innocenza.
Gaia Tarini
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