Adrian Tomine / Morire in piedi
«All of the art I’ve made is a struggle and in [retrospect] doesn’t look very good to me. But I would say, honestly, that the current stuff — like, Killing and Dying, to me, the artwork has a little more of an invisible quality. Which, to me, is good. I look through it and I go, Oh yeah, this is this story, or yeah, this is that character. I’m not thinking, Oh, that arm looks really out of proportion to that head, which is how I feel when I looked at the older books».
Adrian Tomine, Vulture
Molta gente salterà sulla sedia quando capirà che Adrian Tomine è lo stesso delle bellissime copertine del New Yorker. Due volte, se si tiene conto che Tomine a questo traguardo è arrivato con lentezza, partendo da una carriera basata sull’auto produzione. Dal 2009 – anno della sua ribalta professionale – ad oggi, dopo i precedenti Sonnambulo e altre storie, Summer blonde, Una lieve imperfezione e Scene da un matrimoio imminente, questo talento giappo-americano è tornato in Italia grazie a Rizzoli, con un volume che raccoglie sei storie diverse. Si chiama Morire in piedi, ed è meraviglioso.
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[tab: 1, Sulle orme di Ray]
Credo si tratti ancora una volta di deformazione sentimentale, quella che mi porta a segnalare subito una breve battuta con cui si apre Intrusi, l’ultimo dei sei racconti di Morire in piedi:
«Avevo toccato il fondo. Avrei potuto mangiare fino a scoppiare e l’autopsia non avrebbe comunque dato risultati».
Un cuore, un occhio e una memoria allenati sentiranno suonare il campanello del ricordo di un racconto di Raymond Carver – il mio preferito – che ad un certo punto fa così:
«Max arrivò lungo il marciapiedi con una busta del supermercato. Aveva panini, birra e whisky. Era tutto il pomeriggio che beveva e ormai aveva raggiunto il punto in cui l’alcol che mandava giù sembrava cominciare a schiarirgli le idee».
(da Perché non ballate?, contenuto nella raccolta Principianti)
Questa pulizia di linguaggio, nella scrittura come nell’illustrazione, è il veicolo che preferisco per immergermi in storie che hanno un peso molto più specifico delle parole che si usano per raccontarle. Adrian Tomine sembra averlo ormai indovinato, dopo aver attraversato un percorso di crescita personale e artistica, che ha approdato ad uno stile maturo e pulito, basato su pochi indispensabili elementi. Mi sembra di possa parlare del cosiddetto ‘nocciolo della questione’, che al di là di ogni tormento lavorativo, sempre lungo e faticoso, deve approdare senza scampo al cuore vibrante della narrazione. Morire in piedi è proprio un esempio di come questo sia possibile, di come il disegno segua un’idea che parte dal racconto e che finisce costantemente per seguirne il filo, senza mai dissociarsi, senza mai perdersi per strada. Le sei storie che fanno parte di Morire in piedi (Killing and dying, nell’edizione originale pubblicata da Drawn and Quarterly) gettano uno sguardo ben preciso sulla contemporaneità, sull’indifferenza del nostro presente; ma anche sulle sue fragili bellezze, sull’ostinazione dell’amore, sulla lotta per la sopravvivenza all’interno di un mondo – o di una società – che cerca di assottigliare le diversità. Morire in piedi, insomma, è un modo di riflettere e di ribadire che anche la sconfitta deve arrivare con orgoglio, col tentativo di restare presenti a se stessi pure durante la marea.
È quello che cercano di fare i personaggi di Tomine, giardinieri incompresi o giovani studentesse che assomigliano a pornostar, uomini e donne che ci provano – a volte fallendo, a volte no – sempre e ad ogni costo. La tematica della paternità (ma anche quella dell’essere figli e di sentirsi tali) non è affatto oscura, e per stessa ammissione dell’autore ha molto a che vedere col proprio vissuto storico (durante la stesura del fumetto Tomine è infatti diventato padre per ben due volte). Dal respiro dell’illustrazione a tutta pagina alla striscia, Morire in piedi raccoglie sei episodi fulminei e profondi che invitano alla riflessione sul posto di ognuno di noi all’interno di un mondo impalpabile ma violento. Per questo una madre ha bisogno d’inventarsi che il suo vicino in aereo potrebbe essere un ipotetico padre per la bambina con cui sta volando per chissà dove; per questo due genitori scelgono di investire sulla figlia adolescente e balbuziente per assecondare il suo sogno di diventare una stand-up comedian. Tomine è maestro nel sollecitare l’emozione tramite un disegno che però è al contrario assai statico e semplice, vibrante di colori tenui, mai sopra le righe.
[tab: 2, Tutto è già accaduto]
I disegni e le storie di Tomine fioriscono infatti da un contesto illustrativo mai straziante (e solo appena straziato); i personaggi che vi si muovono all’interno sono figure fuori posto che soffrono il disagio di sentire troppo, di assorbire una realtà sottilmente crudele, ironica o disperata. Il fumetto è prezioso, perché spinge alla commozione e invita all’intuizione senza strappi e senza strepiti. Assomiglia molto alla vita, il modo di procedere in punta di penna che c’è in Morire in piedi, un’antologia in cui il disagio – anche il più devastante – è tratteggiato con rispetto e semplicità. Sensazionale è la capacità di tradurre in sceneggiatura gli impercettibili cambiamenti del presente. È il caso di dei capelli tagliati di Amber Sweet, e degli stessi capelli che spariscono senza che il testo vi accenni mai, del racconto che dà il titolo al libro. Lì è dove Tomine suggerisce al lettore che un cambiamento importante è già in atto; che tutte le forze – del cuore e della pancia – sono innescate e pronte a saltare. Il tranello è dietro la porta, ma Tomine non è uno che casca facilmente; così il suo lettore, che ha l’opportunità di assistere a questi piccoli grandi naufragi che lasciano dietro di sé appena un’impressione di eventi già accaduti.
«Chissà quanti anni hai mentre leggi questa mia lettera. Da quanto tempo sono andata via? Ricordi qualcosa del nostro periodo laggiù, pronte a vivere una vita nuova, sconosciuta? Ci pensi che i tuoi genitori erano a un passo dal punto di non ritorno?».
[tab: 3, Vibrato sottile]
Con un azzardo appassionato, direi che Morire in piedi fa il verso a Qui di Richard McGuire e a certi quadri di Hopper. Il tratto è estremamente pulito, schietto e ordinato, i colori piatti e tenui. Ogni tanto Tomine lascia che l’illustrazione si prenda il proprio spazio per far gridare righe di testo perse nel mare di un cielo o di un mare, e gli basta un breve tratteggio per suggerire – purché ci si dimostri disposti all’ascolto e all’osservazione – il sentimento sottile, la nota che accompagna la storia. Il crema, il blu, il giallo tenue, il rosa e l’azzurro sono (naturalmente insieme al nero) i colori che si rincorrono, ma la commistione è regola non solo tra diversi stili, ma anche tra diversi usi della tavola pittorica. La mano di Tomine disegna con falsa piattezza, e tiene testa a una scrittura che segue un percorso tra ironia e malinconia che sembra seguire gli strepiti dell’anima e del cuore.
[Qui una bella intervista di Paul Morton, tradotta da Davide Trovò per il sito di Edizioni SUR.]
Questo libro è per chi si chiude la porta alle spalle dimenticando dentro le chiavi, per chi si taglia i capelli sperando di cambiare e per chi canticchia Father and son di Cat Stevens.
Gaia Tarini
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Sono nata a Perugia nel 1989. Scrivo per la Colonna dal 2014, e nel 2011 ho fondato il blog di recensioni letterarie Le ciliegie parlano, insieme a Giorgia Fortunato.