Breece D’J Pancake / Trilobiti
Cristiana Mennella è la traduttrice di Trilobiti di Breece D’J Pancake, ripubblicato questa primavera per Minimum Fax dopo essere uscito nel 2005 per ISBN Edizioni. Di lui la Mennella scrive “era giovane e perfezionista, ossessivo e maniacale rispetto alla scrittura. A quanto si sa, per un racconto preparava quattro stesure a mano e altre dieci a macchina (…). Intanto insegnava inglese ai soldati in procinto di partire per il Vietnam, veniva ammesso a uno dei primissimi prestigiosi corsi di scrittura creativa, andava a pesca, a caccia di scoiattoli e cervi, giocava a biliardo, si convertiva al cattolicesimo, collezionava armi, fossili e punte di freccia” (dalla speciale nota del traduttore). Impossibile non adorarlo. Impossibile non leggerlo col carico emozionale di chi sa che l’8 aprile del 1979, a soli ventisei anni (uno in più di me nel momento in cui scrivo questa recensione) si tolse la vita con una pistola. Il suo è il racconto di un’America primitiva e tagliente (siamo nella Virginia occidentale) piena di silos, industrie, miniere e paesaggi di rara asprezza. I personaggi di Pancake vi sono persi in preda a qualche irreversibile maledizione, che non è che quella che viene con la vita. Portano il segno di una catastrofe, che raramente però si esplicita; combattono con vecchi squallidi amori, con genitori ottusi e disastrati, vivono in case frugali e defraudate, sembrano sempre sul punto di saltare in aria. In silenzio, però; lo stesso silenzio dei suicidi, o dei promessi tali, quelli che aspettano solo il momento buono per farla davvero finita – pur sapendo che qualcosa, di più impalpabile profondo e grave, è già finito da un pezzo. E allora continuo a chiedermi perché questo libro non mi sia piaciuto. Ed è un ragionamento sottile e disperato, perché in fondo lo riconosco ricco di buona scrittura, tormentata e di certo a tratti autobiografica. Avverto la tensione di Pancake, che in Trilobiti lascia una specie di testamento umano, la testimonianza di un territorio sfinito, mai grottesco, costantemente drammatico e senza speranza. Ma c’è una regione del mio cuore dove tutto questo non arriva. Né la prosa, né le motivazioni di quei personaggi fantasma che parlano lingue disperse e dimenticate. Tutto quello che di profondo mi resta è solo la fotografia di Breece con un gatto in braccio, dove per un gioco di ombre del cappellino che porta i suoi occhi sembrano cancellati senza rimedio dalla faccia della terra. Come forse desiderava essere lui.
Questo libro è per chi ama David Foster Wallace e per chi sogna di andare a caccia di scoiattoli. Per chi scrive cartoline ad un amore lontano e per chi ha imparato a lasciar andare.
Gaia Tarini
_______________________________________________________
Sono nata a Perugia nel 1989. Scrivo per la Colonna dal 2014, e nel 2011 ho fondato il blog di recensioni letterarie Le ciliegie parlano, insieme a Giorgia Fortunato.