Edmund White / Un giovane americano
O è il cattivo odore dentro di me? L’orribile decomposizione del Camembert del mio cuore?
Quante, quante, quante parole di troppo in questo Un giovane americano di Edmund White, che ha fatto impazzire gente del calibro di John Irving, Patrick McGrath e Joyce Carol Oates. Primo di una trilogia iniziata nel 1982, A boy’s own story (questo il titolo originale) è il romanzo di formazione di un fanciullo della buona borghesia nell’America degli anni Cinquanta, costantemente in lotta contro le proprie pulsioni omosessuali. Ispirato e autobiografico, il libro offre uno spaccato di vita e ottusità americana, il teatro pungente e indifferente dentro al quale si muovono senza sforzo ipocrisie e contraddizioni. Il protagonista – il cui nome non viene svelato – si barcamena tra amori platonici ed effimere amicizie, compiendo il naturale processo di negazione puritano dell’epoca, tentando di guarire da quella che la società si ostina a chiamare malattia. Critico dal punto di vista argomentativo, il romanzo di White sembra l’occasione migliore per penetrare un universo duro senza speranza di redenzione; peccato per la prosa del suo autore, sempre così fastidiosamente languida e insistente, sempre così compiaciuta nel cullarsi in paragrafi tanto colmi di superfluo da azzoppare del tutto la tensione narrativa. Disperatamente simile allo Ian McEwan di Espiazione (uno dei pochi romanzi che non sono riuscita a finire), Un giovane americano (Playground, 2011) è un libro soporifero che non sa sfruttare neanche una delle occasioni presenti nella storia per sovvertire il ritmo e diventare interessante. Soporifero. Assumetelo senza esitazioni se avete problemi d’insonnia.
Questo libro è per chi non sa scegliere tra pasta lunga e pasta corta e per chi scrive lettere d’amore riciclabili su pergamene eleganti.
Gaia Tarini
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Sono nata a Perugia nel 1989. Scrivo per la Colonna dal 2014, e nel 2011 ho fondato il blog di recensioni letterarie Le ciliegie parlano, insieme a Giorgia Fortunato.