Rita Indiana / I gatti non hanno nome
Il pianto di Celia il giorno in cui perse i gemelli aprì il solco dove sarebbe sopravvissuto questo amore così duro e acustico, sigillato a prova di apriti sesamo quando l’ostetrico, riconoscendo in Fin un altro medico, gli mostrò i gemelli morti che Celia non era riuscita a portare a termine. I bebè, perché erano già bebè, raggrinziti l’uno contro l’altro su quel vassoietto insanguinato, rappresentavano un funesto annuncio del legame con cui la vita li avrebbe tenuti uniti per sempre malgrado gli affanni, gli insulti, le mancanze, le delusioni e la confusione. Celia non li vide mai, e nei momenti più terribili, quando la sua freddezza o il suo orgoglio le facevano vomitare oscenità pure sulla Vergine Maria, Fin ricordava quei due corpicini inerti e sentiva che ogni volta che loro sopravvivevano a una lite i due bambini tornavano in vita.
I gatti non hanno nome, esattamente come la protagonista dell’omonimo romanzo di Rita Indiana -, un libro magro, che è soprattutto e prima di tutto un’ode a quella lingua di tempo così esigua ma fondamentale in cui bisogna ristabilire l’ordine per regolare il caos che precede e segue il nostro tempo più delicato. Per la ragazza che muove il vento dentro questo libro è l’adolescenza strappata ad una stagione breve ma intensa: i genitori sono in Europa e lei lavora nella clinica veterinaria degli zii, coniugi strampalati e così diversi tra loro, che hanno imparato a rinnovare il proprio amore tra segreti e tenerezze; insieme a lei corrono gli amici, le amiche, per le quali prova un’inquietante e strana pulsione; e naturalmente gli animali, immancabili presenze totemiche che sono più randagie di un cuore che cerca la propria strada. Quello che anima la sua voce è un romanzo fulmineo ma assolutamente mobile, sinuoso come un felino ma al tempo stesso inconsolabile come un cane abbandonato; un libro che ha bisogno di respiro e che entra nel cuore da porte secondarie, le stesse che scoprono la vista su una stanzetta chiusa o sul tavolo chirurgico dove si pratica un’eutanasia innocente, è lo sforzo che segue il salvataggio di un diario segreto fatto in mille pezzi – tutti quelli necessari perché si riparta da zero, col sangue, con le lacrime, ma anche con la gioia e la tenacia, che sono i tesori più insospettabili ma imprescindibili dell’ultimo volo dell’infanzia. I gatti non hanno nome (NN Editore, 2016) spinge il lettore ad un’analisi che chiama in causa testa e cuore insieme, ed è ricco e colorato da una scrittura che qui per la prima volta osa definirsi trash meraviglioso. Con una nota del traduttore imprescindibile, e bellissima.
Consigliato a chi ha sentito il bisogno, ultimamente, di fermarsi a guardare il cielo; e a chi continua ad aspettare anche quando il guinzaglio che ci tiene legati non c’è più.
Gaia Tarini
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