Stefano Ricci / La storia dell’Orso
«Io sono autodidatta, non ho studiato disegno dal vero, e raramente lo faccio, così non posso insegnarlo. Quello che mi sento di proporre, è una questione orfana di questa sapienza che ammiro moltissimo e che riconosco. Sento di poter dire qualcosa su: andare, guardare, tornare e disegnare. Questa è la pratica che ho esercitato, questo scomparire nel guardare mi vien facile».
Quando le parole del nostro alfabeto non bastano più, ecco che intervengono quelle del mondo animale; e dove cercarle, se non in quei boschi sperduti, lungo quei confini ghiacciati, quei mari silenziosi, che albergano nei mondi lontanissimi che sono fuori e dentro di noi? È quello che fanno i personaggi di un libro strano – La storia dell’Orso di Stefano Ricci, pubblicato da Quodlibet nel 2014 -, un volume importante e ambiguo, basti pensare alla sua forma (432 pagine) e alla sua struttura: una raccolta di tavole che spingono la narrazione ai bordi rendendola frammentaria ed essenziale. Il racconto di cronaca, quello di un orso veramente apparso in Pomerania, la cui ricerca e abbattimento furono affidati ad un gruppo scelto di cacciatori, è lo spunto per ragionare sul destino braccato e in fuga di umani che hanno solo l’impressione di star fermi; oppure, paradossalmente, la risposta alle speranze di chi, dopo essere scappato per tutta la vita, ha bisogno di sapere che è possibile fermarsi.
[tab: Il lungo inverno]
L’azione si svolge in Pomerania, dove Stefano, barelliere della Croce Italia, scrive un diario alla fidanzata Stellina, narrandole le sue vicende di soccorritore. La storia dell’orso, quella che dà il senso al titolo, è al centro di questo carteggio ad una voce sola, ed è il racconto di un animale braccato continuamente in fuga da un confine all’altro, tra il Sud Tirolo, l’Austria e la Germania. Prezioso è il suo contributo nelle pagine per rovesciare immediatamente i ruoli ed accompagnare il lettore all’interno di una natura ‘altra’, più selvaggia, più scura, più sporca di quanto non siamo disposti ad ammettere: la bestia è in fuga è la speranza di chi, sfuggito alla guerra, trova rifugio in queste pagine per illustrare una sopravvivenza più tragica, più difficile. Ricci spezza subito il legame con la realtà mettendo in campo una soluzione che mi è carissima: la fusione tra uomo ed animale, in modo così naturale e commovente che arrivare alla fine è un’impresa non per pochi. Il carico emotivo è costante, perché in quelle lettere così piene di partecipazione, lo sguardo del narratore/autore è più denso che mai di parole invisibili: sua è l’osservazione di una natura ingrata, quella mascherata, tradita dai giornali – sloveni o italiani, che riportano la cronaca di un inseguimento che non è una semplice caccia. Il libro si sporca di significati oscuri ma, al contempo, solari: c’è lui, Stefano, che il compagno soccorritore chiama ‘coniglio’ e che ad un certo punto, a tutti gli effetti, si scolla dalla sua figura umana, quella che non interviene mai, appunto, se non quando la fusione si è avverata per davvero; c’è l’orso, che da subito è un uomo in fuga, accolto da una bambina col fucile che esce ed entra dal sogno con straordinaria facilità; c’è Manfred, che parla ai cinghiali, e ha una collezione di registrazioni coi loro suoni. Loro, i cinghiali, che ad un certo punto chiedono il testimone, per raccontare di un’estrema fuga nei campi gelati, anche a costo di uscirne paralizzati, per non diventare come la volpe che cede all’inverno facendosi scivolare nell’acqua.
In questo modo, tutti coloro che abitano La storia dell’Orso – anche senza essere l’orso stesso – cercano di sopravvivere ad un inverno che è più crudo e violento di quello che ghiaccia l’atmosfera. Il gioco di rimandi, il racconto in sé, non può essere puro se non nel momento in cui diventa solennemente assurdo. Ricci è un maestro, in questo caso, nel condurre per mano l’improbabile e la verità, nel cambio di voce repentina, un momento prima di scadere nel didascalico. Non sorprende, allora, all’interno di un volume che sembra debba parlare di tutt’altro, ritrovare la testimonianza di chi, esattamente come certi animali straziati, ha dovuto inerpicarsi sui sentieri di montagna per sfuggire alla minaccia fascista; il ricordo delle bombe, la mistificazione del vero e del giusto, spazzata via solo da un volo di anatre, dalla natura autenticamente innocente di un cane che abbaia ad una faina che attraversa metaforicamente la pagina.
[tab: Lo racconteranno gli alberi]
Stefano racconta, mentre i suoi personaggi – gli umani e gli animali che dovranno necessariamente prendersi per mano – gli chiedono soltanto di poter stare in quel recinto nero dentro cui tutto accade, quasi cinematograficamente. Il senso della storia è che la natura vince, e che in questo c’è tutto il giusto e lo sbagliato del mondo. Sono pagine strane, quelle della Storia dell’Orso, dentro le quali è caldamente consigliato perdersi; nello scorrerle si finisce per avere freddo. Così, mentre la caccia alla bestia si fa più aspra e la fuga migliore diventa il letargo – quella condizione del corpo animale così impossibile per noi umani da comprendere e da raggiungere, quella condizione che ci sarebbe così fatale – a doversi ritrovare e a darsi la caccia è il narratore stesso. Dove finirà la voce di chi ha saputo sul serio sconfiggere l’inverno? Chi merita di essere salvato? La risposta è (fortunatamente) molto soggettiva, com’è necessariamente la visione con cui ci si approccia ad un libro come questo; che è molto lontano dal fumetto e allo stesso modo ne prende in prestito un po’ la lingua, lasciando a pochissime parole il compito di illustrare ciò che invece le immagini dicono ad alta voce.
Ciò che resta in sospeso e viene affidato alla visione è un senso di oscurità fortunatamente arrivata al suo termine. Tutto sta nelle ultime fotografie che completano il volume, quelle in cui Ricci restituisce alla storia vera i dettagli che gli hanno permesso di inventare la sua; è nello sguardo autenticamente ignaro di un orso in piedi, forse in attesa di essere abbattuto; nell’ingiustizia del tempo che è passato, dimenticandosi qualcosa indietro. Gli alberi, sempre così felicemente presenti, lo racconteranno quando questi rumori (già silenziosi) si saranno definitivamente spenti; lo racconteranno le fotografie, di Ricci e della sua famiglia, ma anche di altri, che completano la raccolta, che invitano al silenzio, a ricominciare dalla prima pagina. Solo a quel punto si ha la sensazione di essere entrati un po’ in possesso di quelle lettere dedicate ad un amore lontano, che incitano silenziosamente alla pietà, alla riflessione e alla tenerezza, che chiedono ancora una volta qual è e quant’è lungo il passo che ci separa – se c’è – dagli animali che ci abitano e che temiamo, quelli cui è affidata la nostra parte più vera, più sacra, quella che sfugge ad ogni controllo ed è ancora in attesa che una storia venga raccontata.
[tab: Viaggio nell’oscurità]
La storia dell’Orso è un libro molto sporco. Ricci usa solo pochi colori – il bianco, il nero, il marrone scuro, tinte di giallo, di grigio – accendendo i suoi disegni di un senso grafico misterioso. Mi piace pensare che i neri che incombono nel doppio quadrato che percorre ogni coppia di pagina succeda tutto quello che non vediamo: è lì che la storia si snoda davvero, è nel segreto del bosco, o nell’acqua dove non si vede un dito. Gli occhi degli animali e degli uomini sono cavi perché ci si possa affacciare dentro di loro come da una finestra e scorgere la loro parte più viva: è un uso del colore e del segno che richiama, incredibilmente, il tratto di certe pitture rupestri, e forse volontariamente. Bisogna tornare alle origini per accogliere con tutta la purezza necessaria quello che di terribile si racconta in questo volume.
L’orso è un animale che ha risolto una serie di problemi con i quali gli esseri umani continuano a combattere, si legge in queste pagine. L’orso ha regalato a tutti gli effetti quella discesa necessaria tanto al lettore quanto al narratore in una natura cupa e inospitale, capace di ferire ma anche di proteggere. Nei neri di Ricci ci si può nascondere quando la storia sembra prendere il sopravvento, quando si ha bisogno di riprendere fiato; una parte del vostro cuore sarà con quegli animali che vedono anche al buio, e che popolano le pagine improvvisamente rischiarate di una luce ad olio, densa e scivolosa, sporcata dal dubbio su cosa siano davvero la libertà o la cattività, poco importa se umana o animale.
Consigliato a tutti gli orsi ancora in libertà.
Gaia Tarini
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