Yusuf Atılgan / Hotel Madrepatria
Si vergognava, si sentiva in imbarazzo di fronte alle persone che si credevano innocenti e che non sapevano che era, in qualche modo, impossibile stare sulla faccia della Terra senza commettere alcun crimine.
La donna è arrivata col treno in ritardo da Ankara il giovedì pomeriggio. È approdata all’Hotel Madrepatria, quello proprio dietro la stazione; ed è ripartita la mattina seguente. Quello che non sa, è che in qualche modo – col suo asciugamano sporco, il suo letto disfatto, la sua presenza leggera – ha spostato il baricentro della vita del tenutario, Zebercet Efendi, trentenne malinconico e prigioniero di una routine troppo pesante fatta di avventori casuali e strampalati, e di sesso asettico con la cameriera che lavora per lui. Quel passaggio effimero, quella presenza materializzatasi come per magia e già ripartita in un paese sperduto dell’Anatolia, apre le porte ad una disperazione nera sedimentata troppo a lungo nel cuore di Zebercet: masturbazioni tristi ed estenuanti, piccoli scoppi di violenza o scortesia, il confondersi – nelle strade là fuori, oltre la hall dell’unico universo che abbia mai conosciuto – sono adesso il suo unico modo di tenere la testa fuori dall’acqua, con brevi lampi di ricordi che arrivano a spazzare via tutto il poco di umano che gli è rimasto.
Considerato un capolavoro della letteratura turca, Hotel Madrepatria (Calabuig, 2015) ha consacrato Yusuf Atılgan come uno dei più grandi maestri della tradizione letteraria. C’è un solo problema, che probabilmente dipende (anche) dal nostro (dal mio) modo di leggere e sentire una lingua, un sentimento che viene da lontano: la traduzione è buona, ma il ritmo insufficiente, perché se è vero che le premesse sono ottime (l’incontro tra un Gran Budapest Hotel oscuro e un horror che potrebbe essere stato girato nell’albergo di Le conseguenze dell’amore), a stentare è proprio la scrittura. Ciò che lo rende esangue è uno stile che lentamente si chiude in se stesso, facendosi meccanico e disordinato, e con un tremendo bisogno d’essere asciugato. L’autismo della storia, insomma, inquina in maniera non comunicativa ma disturbante anche la penna di chi la racconta, rendendone la lettura faticosa e provocando la bestia nera di ogni scrittore: la noia. Un peccato di quelli veri.
Consigliato a chi è capace di farsi cambiare la vita da un colibrì che passa, e a quelli che non lasciano perdere tanto facilmente.
Gaia Tarini
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